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Le difficoltà a livello locale per le “nuove minoranze religiose”, segnatamente musulmane, di conseguire una piena effettività del diritto all’edificio di culto segnano una nuova tappa con l’Ordinanza dirigenziale n. 03/EP del 15/11/2023 del Comune di Monfalcone: attraverso questo provvedimento si vogliono far cessare le attività di culto che vengono effettuate in una sala a disposizione del Centro Islamico Darus Salaam, con la motivazione che così facendo si sarebbe cambiata la destinazione d’uso dell’immobile, non zonizzato in maniera da poter essere considerato urbanisticamente un luogo di culto.
L’ordinanza cerca di imporre il ripristino della destinazione d’uso dell’immobile ricompreso nella categoria direzionale e non servizi e attrezzature collettive. Sarebbe dunque possibile svolgervi attività culturale da parte degli iscritti all’associazione ma non si potrebbe trasformarlo in un edificio di culto.
Dal punto di vista sostanziale l’ordinanza si basa su numerose verifiche da parte della polizia locale che avrebbero verificato come l’immobile in questione fosse usato da un numero di persone molto alto che avrebbe modificato il carico urbanistico della zona e conseguentemente sarebbe la spia del cambio di destinazione d’uso che determinerebbe la violazione. A fronte di una capienza massima, anche in ragione delle necessità di sicurezza, di un centinaio di persone, la sala risulterebbe in talune occasioni riguardanti particolari ricorrenze utilizzata da molte centinaia con necessità poi di occupare anche il suolo pubblico perché non abbastanza capiente.
Si sarebbe dunque determinato permanentemente un cambio di destinazione d’uso con conseguente variazione del carico urbanistico, determinante un abuso edilizio, nei confronti del quale il Comune di Monfalcone ordina il ripristino immediato della destinazione d’uso legittimamente autorizzata con divieto di utilizzo dell’immobile come luogo di culto.
La questione è, come noto, ovviamente molto delicata dal punto della gestione politica e molto complicata dal punto di vista giuridico: le necessità urbanistiche non rendono facile trovare soluzioni in situazioni politicamente fluidi e accomodanti, a maggior ragione quando l’indirizzo politico locale sia segnato esplicitamente in termini di ostilità nei confronti di una determinata religione, come nel caso in questione.
Dalle notizie di stampa è possibile evincere che l’ordinanza verrà impugnata dinanzi al giudice amministrativo e quindi nei prossimi mesi potremmo avere una risposta riguardo alla sua legittimità in rapporto alla situazione concreta e anche in rapporto al diritto all’edificio di culto.
Qualche riflessione generale è però già possibile, dal momento che questo provvedimento semplicemente è un momento di sfogo di un conflitto riguardante un problema che a livello locale è presente ormai su tutto il territorio nazionale e che continuerà a ripetersi se non si prenderanno provvedimenti strutturali capaci di prevenirlo: cioè il problema di consentire a tutti coloro che vogliano esercitare la propria libertà religiosa di poter disporre di un edificio di culto, diritto sancito più e più volte in maniera molto chiara dalla giurisprudenza costituzionale e in particolare tematizzato con una certa qual vincolatività per la pubblica amministrazione nella sentenza n. 254 del 2019 (sulla quale vedi su questa Rivista M. Croce, Osservazioni a prima lettura sulla sentenza n. 254/2019 della Corte costituzionale, n. 2/2019).
È evidente che in assenza del corretto titolo edilizio la conseguenza non possa che essere un abuso edilizio sotto forma di cambio di destinazione d’uso, ma bisogna cominciare a chiedersi: questa situazione da cosa è determinata? A quella comunità religiosa è stata data la possibilità di ottenere un altro immobile in una zona in cui per il piano regolatore è consentito avere edifici di culto? Si sono mappate le esigenze religiose della popolazione per predisporre, per l’appunto, un piano regolatore capace di soddisfarle? Oppure queste comunità religiose vengono costrette, da indirizzi politici locali che vogliono impedire a determinate minoranze religiose di esercitare il proprio culto e di diffondersi, a rifugiarsi nella dimensione del fatto utilizzando come possono quello che hanno a disposizione?
Se una pubblica amministrazione non fa nulla per creare le condizioni per le quali un diritto costituzionale inviolabile come quello di libertà religiosa possa essere effettivamente messo in pratica, o addirittura pone in essere attività per non consentirne l’esplicazione, è evidente che pone quei gruppi religiosi di fronte all’alternativa tra rinunciare alla propria libertà religiosa o commettere un reato. Una situazione inaccettabile giuridicamente (e si potrebbe porre forse pure il tema dell’esercizio di un diritto come scriminante), foriera di tensione sociali e inaccettabile anche umanamente.
In attesa di una politica ecclesiastica, anche degli enti locali, mirata a dare compiutezza al diritto di libertà religiosa per tutti, e non solo per alcuni, sotto forma di una politica per l’edilizia di culto a servizio del nuovo pluralismo religioso, non resta purtroppo che registrare la presenza, viceversa, di atteggiamenti conflittuali tesi a esacerbare le tensioni sociali di cui questa ordinanza è sicuramente testimone.
Marco Croce