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In seguito ai recenti roghi del Corano, la Danimarca ha legiferato introducendo nel proprio Codice penale una disposizione ad hoc.
Secondo la nuova disposizione dell’articolo 110 sexies, comma 2, del Codice penale di Copenaghen, dunque, commette reato “chiunque, pubblicamente o con intenzione di diffusione in una cerchia più ampia, si rende colpevole di trattamento inappropriato d’uno scritto che abbia un rilevante significato religioso per una comunità religiosa riconosciuta, o di un oggetto che riproduca o richiami tale testo sacro”.
Il quadro normativo di riferimento era finora costituito, infatti, dagli artt. 110 sexies c.p., 266 bis c.p. e 139 comma 2 c.p.
Secondo il 110 sexies: “chiunque insulti pubblicamente una nazione straniera, uno Stato estero, la sua bandiera od altro emblema nazionale riconosciuto, o la bandiera delle Nazioni Unite o del Consiglio Europeo (poi: dell’UE) sarà punito con sanzione pecuniaria o con la reclusione fino a 2 anni”; per l’art. 266 bis c.p., poi, “è punibile chiunque, pubblicamente o con l’intento di diffusione in una cerchia più ampia, faccia una dichiarazione o formuli altro messaggio con il quale un gruppo di persone venga minacciato, deriso od umiliato per razza, colore della pelle, origine nazionale od etnica, convinzioni personali, disabilità, orientamento sessuale, identità di genere, o per altre caratteristiche del gruppo d’appartenenza: anche qui, sanzione pecuniaria o reclusione fino a due anni”.
Per potersi applicare l’art. 266 bis c.p., però, è necessario che la dichiarazione od il messaggio siano resi pubblicamente o con l’intenzione di dar loro ampia diffusione, ed inoltre la dichiarazione deve avere carattere di minaccia, scherno o denigrazione.
L’articolo 139 comma 2 c.p., infine, stabilisce: “chiunque si rende colpevole di trattamento indecente delle cose appartenenti ad un ente confessionale ed usate per uso ecclesiastico è punito con sanzione pecuniaria o con reclusione fino a 6 mesi”.
Tale disposizione, tuttavia, si applica solo alle res sacrae appartenenti ad un ente confessionale, e non anche a quelle di proprietà dello stesso autore del reato (che, quindi, potrebbe acquistare un oggetto o testo sacro e vilipenderlo), e parimenti è necessario che gli oggetti vilipesi siano utilizzati per uso religioso o di culto (è perciò necessario che l’oggetto vilipeso, se non ha una valenza sacrale intrinseca, si trovi all’interno d’un edificio di culto).
In linea di principio, perciò, finora non era punibile secondo il Codice penale bruciare pubblicamente, ad esempio, un Corano od un altro testo religioso, che non fosse di proprietà d’un ente religioso, a meno che ciò non fosse avvenuto in circostanze in cui un gruppo di persone fosse stato contemporaneamente minacciato, deriso od umiliato a causa della sua fede, ex art. 266 bis c.p.
L’innovazione legislativa ha dunque introdotto nel Codice penale una disposizione che renda tali insulti, come il rogo pubblico del Corano, penalmente rilevanti, proteggendo gli scritti con un significato religioso rilevante per le comunità religiose registrate, come riconosciute ai sensi della legge sulle comunità religiose (legge n. 1533 del 19 dicembre 2017 sulle comunità religiose non appartenenti alla chiesa nazionale e successive modifiche).
La disposizione si applicherà agli scritti con un rilevante significato religioso, ossia ai testi che, all’interno della tradizione di fede in questione, fossero considerati particolarmente rilevanti per la loro sacralità intrinseca o per gli insegnamenti contenuti, sicché un testo utilizzato per motivi religiosi o come parte ausiliaria d’un atto di culto, ad ex. un libro generico di canti per accompagnare le funzioni religiose, non sarà di per sé protetto, né parimenti lo saranno gli scritti che per ragioni culturali o politiche fossero sì collegati, ma non centrali alla professione di fede cui si riferiscano.
La definizione di ‘trattamento inappropriato’ include, evidentemente, non solo il rogo del testo sacro, ma anche i casi in cui esso venisse calpestato, preso a calci, imbrattato, oppure strappato, o tagliato a pezzi, etc.
Secondo la giurisprudenza danese, poi, fattore decisivo sarà se il trattamento in questione possa essere considerato inappropriato dal punto di vista sociale generale: avvolgere un testo sacro in carne di maiale è quindi, ad ex., considerato inappropriato, indipendentemente dall’appartenenza religiosa della Scrittura, mentre, al contrario, avvolgerlo in una bandiera arcobaleno non costituirà un trattamento inappropriato.
La disposizione riguarda solo il trattamento fisicamente improprio degli scritti fisici, restando quindi escluse dichiarazioni verbali o scritte, e rimanendo perciò libera la critica alla religione espressa in modo anche acceso.
Rimangono parimenti libere le rappresentazioni artistiche, se il trattamento altrimenti inappropriato costituisse una parte minore di un’opera artistica complessivamente più ampia, mentre sarà vietata un’opera artistica che avesse come componente unica o centrale il trattamento inappropriato: ne consegue, dunque, che non sarà punibile bruciare un testo sacro in un film, e nemmeno strapparlo in un concerto, un’opera lirica o teatrale che sviluppassero una storia nella quale i maltrattamenti ad un testo sacro fossero ragionevolmente correlati (ad ex. un film sul nazismo in cui vi fossero maltrattamenti ai testi sacri ebraici), mentre saranno vietati film, concerti, etc., nei quali il maltrattamento del testo sacro fosse fine a sé stesso.
Questa nuova disposizione è rispettosa dell’art. 77 della Costituzione danese, secondo il quale ognuno ha il diritto di pubblicare i propri pensieri sulla stampa, per iscritto e in parole, fermo restando il limite di legge per i casi di diffamazione, etc.
Per quanto riguarda l’articolo 10, comma 1, della CEDU, poi, secondo il quale ogni individuo ha diritto alla libertà di espressione, la giurisprudenza di Strasburgo ha chiarito che tale libertà non include anche dichiarazioni che minaccino od incitino alla violenza, né dichiarazioni che esprimano odio estremo od insulti contro altri gruppi di persone, individuati su base religiosa.
È vero che la tutela della libertà di espressione comprende non solo il contenuto delle idee e delle opinioni espresse, ma anche la forma in cui esse vengano comunicate (affaire De Haes et Gijsels vs Belgium, n. 48), tuttavia la tutela della libertà di espressione, ex art. 10 comma 2 CEDU, non è assoluta: ad essa possono venir posti dei limiti, se prescritti per legge e necessarî in una società democratica nell’interesse della sicurezza nazionale, dell’integrità territoriale o dell’incolumità pubblica, per prevenire disordini o crimini, per proteggere la salute o la morale, per proteggere nome, onorabilità o diritti altrui, per impedire la diffusione di informazioni riservate, ed infine per garantire l’autorità e l’imparzialità della magistratura.
Ne discende che l’esercizio del diritto alla libertà di espressione comporta doveri e responsabilità, ciò che, in relazione alle espressioni di credenze religiose, include il dovere d’evitare, per quanto possibile, espressioni offensive e blasfeme in relazione ad oggetti trattati con riverenza da altri (affaire Wingrove vs Royaume Uni, n. 52).
La Corte di Strasburgo, tuttavia, riconosce allo stesso tempo che la libertà di espressione protegge le critiche, comprese quelle molto aspre, alla religione, se si trattasse di questione d’interesse pubblico, e se le affermazioni in predicato non possano essere considerate come blasfeme od inutilmente offensive (affaire Tagiyev et Huseynov vs Azerbaidjan, nn. 42-50, ed affaire Yefimov et alii vs Russie, nn. 40-48), ed in ogni caso stabilisce che uno Stato dispone d’un ampio margine di discrezionalità per valutare i singoli casi concreti.
Stefano Testa Bappenheim (Università di Camerino)