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Libertà religiosa del lavoratore e neutralità dei pubblici uffici. La pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione europea del 28 novembre 2023
A distanza di poco più di due anni dalla pronuncia del 15 luglio 2021 nelle cause riunite nn. C-804/16 e C-341/19, la Corte di Giustizia dell’Unione europea ritorna sul tema del porto dei simboli religiosi nei luoghi di lavoro, stavolta con specifico riguardo al settore pubblico in Belgio. Si tratta di una tematica di grande attualità, come dimostrano le innovazioni introdotte, in tale specifico ambito, dalla legge francese 2021-1109 confortant le respect des principes de la République.
La fattispecie definita dalla Grande Chambre della Corte di Lussemburgo il 28 novembre 2023 nella causa C/148-22 concerne la richiesta della responsabile di un ufficio comunale di indossare il velo islamico durante l’orario di lavoro. Nonostante l’attività lavorativa fosse espletata principalmente senza contatto con gli utenti (back office) la Giunta del Comune di Ans (Belgio) vietava alla lavoratrice di ostentare simboli che rivelassero le sue convinzioni religiose in attesa dell’emanazione di un’apposita normativa comunale in materia.
Sulla scorta delle sollecitazioni della Giunta, il Consiglio comunale di Ans procedeva alla modifica del regolamento accogliendo un modello di “neutralità esclusiva” che imponeva a tutti i dipendenti il divieto di qualsiasi forma di proselitismo e il divieto di indossare “segni vistosi” della loro appartenenza ideologica o religiosa, a prescindere dal contatto o meno con i fruitori dei servizi pubblici (art. 9).
Lamentando una violazione del suo diritto di libertà religiosa, oltre che una discriminazione su base religiosa, la lavoratrice proponeva così un’azione inibitoria innanzi al Tribunale del Lavoro di Liegi, impugnando sia le decisioni della Giunta comunale che le nuove disposizioni del regolamento comunale.
Da qui il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione europea, che veniva tuttavia circoscritto dal Giudice del rinvio alla sola verifica dei profili di compatibilità dell’art. 9 del regolamento comunale di Ans con il diritto antidiscriminatorio eurounitario, e specificamente con l’art. 2, paragrafo 2, lett. a) e b) della Direttiva 2000/78. In altri termini, la Corte veniva chiamata a valutare, in primo luogo, se costituisse discriminazione diretta l’organizzazione di un ambiente amministrativo totalmente neutro e il divieto, esteso a tutti i dipendenti, di indossare segni che potessero rivelare convinzioni religiose e, in second’ordine, se tale divieto, colpendo prevalentemente le lavoratrici, potesse integrare un’ipotesi di discriminazione indiretta fondata sul genere.
Impostato il rinvio in questi termini, le questioni pregiudiziali su cui la Corte di Lussemburgo veniva chiamata a pronunciarsi coincidevano con quelle già dedotte alla sua cognizione nel giudizio definito dalla precedente pronuncia del 2021.
La decisione della Corte di ritenere compatibile con il diritto antidiscriminatorio europeo l’organizzazione di uno spazio lavorativo totalmente neutro, conformemente a quanto già deciso dalla Corte nella pronuncia del 2021 per il settore privato, appariva, pertanto, prevedibile nel suo esito.
Anche nel testo di una pronuncia limitata all’esame dei soli profili di diritto antidiscriminatorio, appare tuttavia meritevole di essere valorizzato il richiamo della Corte alla possibile adozione, da parte degli Stati membri, di “un’altra politica di neutralità”, attuata mediante “un’autorizzazione generale e indiscriminata a indossare segni visibili di convinzioni personali, in particolare filosofiche o religiose, anche nei contatti con gli utenti, oppure un divieto di indossare siffatti segni limitato alle situazioni che implicano tali contatti”.
Questi alternativi assetti sembrano in effetti costituire modelli organizzativi in grado di garantire l’uniforme e non differenziata erogazione dei servizi pubblici senza comportare una significativa compressione del diritto di libertà religiosa dei lavoratori e delle lavoratrici, nel rispetto di quanto dettato, peraltro, dall’art. 22 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione europea (L’Unione rispetta la diversità culturale, religiosa e linguistica), disposizione, tuttavia, nemmeno menzionata nella pronuncia della Corte.
Fabio Balsamo