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La Corte di Lussemburgo viene chiamata, in via stragiudiziale, ad interpretare l’articolo 5, paragrafo 3, della direttiva 2011/95/UE, recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta. La questione sorge in territorio austriaco a seguito delle continue richieste di asilo, presentate da un cittadino iraniano JF, convertitosi al cristianesimo, religione perseguitata in Iran, che vengono costantemente rigettate dal Bundesamt für Fremdenwesen und Asyl (Ufficio federale per il diritto degli stranieri e il diritto di asilo, Austria), a fronte dell’offerta duna garanzia di protezione sussidiaria che consente al richiedente solo un permesso di residenza temporanea, una volta verificati i requisiti minimi valutati su base individuale. A monte del rifiuto dell’amministrazione austriaca di qualificare il richiedente, con lo status di rifugiato ai sensi della Direttiva citata, vi è la considerazione della mancanza di un presupposto essenziale: ovvero che al tempo del suo trasferimento in territorio austriaco non era configurabile il problema della persecuzione della fede cristiana. Premessa questa considerazione la richiesta viene, addirittura, percepita come un abuso o una strumentalizzazione. I tribunali ribaltano le posizioni assunte dall’amministrazione. Il Tribunale amministrativo adito precisa che la mancanza di elementi probanti l’intenzione di intraprendere un percorso di conversione, già manifestata nel paese d’origine, non è sufficiente per negare il riconoscimento dello status di rifugiato. Adita, in ultimo, la Verwaltungsgerichtshof (Corte amministrativa, Austria) il giudice ricevente sospende con rinvio pregiudiziale per l’interpretazione della normativa europea nel senso che il citato art. 5 osta “a una normativa nazionale che subordina il riconoscimento dello status di rifugiato, a seguito di una domanda reiterata ai sensi dell’articolo 2, lettera q), della direttiva 2013/32, fondata su un rischio di persecuzioni derivante da circostanze che il richiedente stesso ha determinato dopo la partenza dal paese d’origine, alla duplice condizione che tali circostanze rientrino tra le attività consentite nello Stato membro interessato e costituiscano l’espressione, e la continuazione, di una convinzione del richiedente già manifestata nel paese d’origine”. L’applicazione della normativa da parte degli Stati membri è condizionata all’esercizio di una mera facoltà, inoltre la precisazione che “di norma” lo status di rifugiato è inapplicabile se il rischio di persecuzioni invocato dal richiedente a sostegno di una domanda successiva ( a quella principale) sia fondato «su circostanze determinate dal richiedente stesso dopo la partenza dal paese di origine», non esclude una differente valutazione da parte delle amministrazioni locali e, quindi, la concessione dello status. Invocata l’applicazione della Convenzione di Ginevra art. 33, e rilevata una certa ambiguità della traduzione del termine «unbeschadet» contenuto nella Direttiva, che può significare «in accordo con», ma anche, viceversa, «senza tener conto di», la Corte precisa che dalla valutazione individuale del caso non emerge un’intenzione abusiva e di strumentalizzazione della procedura applicabile e, ancora più incisivamente, afferma che la norma in questione non può neppure essere interpretata nel senso di introdurre una presunzione, secondo cui qualsiasi domanda successiva, fondata su circostanze determinate dallo stesso richiedente dopo la partenza dal paese di origine, configuri un abuso, presunzione che il richiedente avrebbe l’onere di confutare. All’amministrazione locale spetta di valutare la verosimiglianza del rischio che il richiedente asilo correrebbe di essere sottoposto a persecuzione per motivi religiosi rientrando nel paese di origine, e, quindi, poiché le disposizioni della Convenzione di Ginevra, richiamate dall’art. 5 della Direttiva, non ammettono applicazioni con riserva, nessuno Stato contraente espellerà o respingerà, in alcun modo, un rifugiato verso i confini dei territori in cui la sua vita, o la sua libertà, sarebbero minacciate a causa, in particolare, della sua religione. In conclusione l’art. 5 va interpretato nel senso di costituire un ostacolo ad una normativa nazionale che subordinasse la concessione dello status di rifugiato per persecuzioni di natura religiosa alla circostanza che le condizioni di rischio, determinate dallo stesso richiedente (nel caso di specie la sua conversione al cristianesimo, riconosciuto ufficialmente in questa sede come religione perseguitata) siano l’espressione e la continuazione di una convinzione del richiedente già manifestata in precedenza nel paese di partenza. In sostanza la Corte di Lussemburgo con questa decisione produce il duplice effetto di coniugare il diritto di protezione internazionale con la difesa del diritto di libertà religiosa, che diventa, nei casi cui vi sia il rischio di persecuzioni religiosamente orientate, requisito per ottenere lo status di rifugiato in Europa, e confermare il dato preoccupante dell’escalation persecutoria, in alcuni paesi islamici, nei confronti dei membri delle chiese cristiane.
Cristiana Maria Pettinato
Fonte: https://curia.europa.eu/juris/document/document.jsf?text=&docid=283282&pageIndex=0&doclang=IT&mode=req&dir=&occ=first&part=1&cid=187436