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Con la recente sentenza Pindo Mulla v. Spain del 17 settembre 2024, la Corte europea dei diritti dell’uomo si è trovata ad affrontare una questione complessa e delicata, riguardante il rifiuto di emotrasfusioni per motivi religiosi da parte di una Testimone di Geova.
La ricorrente, una cittadina spagnola aderente al movimento religioso dei Testimoni di Geova, era stata sottoposta ad emotrasfusioni a seguito del suo ricovero d’urgenza dovuto ad una complicanza post-operatoria. La donna aveva tuttavia espresso chiaramente e preventivamente il suo rifiuto a tale trattamento, redigendo appositamente due documenti, conformi alla Ley 41/2002 che regola le disposizioni anticipate di trattamento in Spagna. Nel primo documento, una direttiva anticipata di trattamento (documento de instrucciones previas), la donna aveva dichiarato che, in quanto Testimone di Geova, rifiutava categoricamente le trasfusioni di sangue in qualsiasi circostanza si fosse potuta verificare. Nel secondo documento, una dichiarazione di volontà anticipata (declaración de voluntades anticipadas), aveva ribadito il suo rifiuto e designato nuovamente i soggetti cui sarebbe spettata la rappresentanza e il potere decisionale in caso di incapacità sopravvenuta. Entrambi i documenti venivano correttamente depositati nel Registro Nazionale e nel Registro della Comunità autonoma di Castiglia e León, conformemente a quanto disposto dall’articolo 11 della Ley 41/2002 e dell’articolo 8 della regionale Ley 8/2003. Inoltre, in attuazione di quanto disposto dall’articolo 8 della Ley 41/2002, nel primo ospedale in cui la ricorrente veniva ricoverata, ossia l’ospedale di Soria, veniva effettuata una registrazione scritta del rifiuto alle emotrasfusioni nella cartella clinica della paziente.
Tuttavia, quando la donna veniva trasferita d’urgenza in un secondo ospedale, l’ospedale di La Paz, i medici del nuovo reparto rilevavano solo un rifiuto verbale della paziente alle trasfusioni e, considerata la gravità della situazione, chiedevano istruzioni al juez de guardia del Juzgado de Instrucción. In assenza, quindi, di qualsiasi informazione circa le pregresse statuizioni di volontà della richiedente, il juez de guardia affermava che l’articolo 16 della Costituzione spagnola prevede dei limiti intrinseci al diritto di libertà religiosa, quando questo si trovi a collidere con altri diritti fondamentali, quali il diritto alla vita e alla salute. Considerata, quindi, la gravità della situazione medica in cui versava la donna e la mancanza di «no reliable evidence of any refusal by the patient to receive medical treatment», il juez de guardia autorizzava i medici a procedere con la trasfusione. Di conseguenza, la paziente si trovava a ricevere un trattamento cui aveva esplicitamente e preventivamente rifiutato.
La ricorrente portava quindi il caso davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo, sostenendo che lo Stato spagnolo aveva violato il suo diritto al rispetto della vita privata e familiare (art. 8 della CEDU) e alla libertà religiosa (art. 9 della CEDU), posto che il rifiuto delle emotrasfusioni non era solo una scelta medica, ma un elemento fondamentale della sua identità personale e della sua coscienza religiosa.
La Corte si è trovata quindi a bilanciare due diritti fondamentali: da un lato, il diritto alla salute e alla vita e, dall’altro, la libertà religiosa e il diritto all’autodeterminazione. Innanzitutto, la Corte ha richiamato principi già consolidati nella sua giurisprudenza (come il caso Pretty vs. U.K.[1], Lambert and Others vs. France[2], Jehovah’s Witnesses of Moscow and Others v. Russia e Taganrog LRO and Others v. Russia[3]), evidenziando che il diritto al rispetto della vita privata abbraccia l’autodeterminazione personale, la quale, salvaguardata dal consenso libero ed informato, consente all’individuo di decidere in piena autonomia se sottoporsi o meno a un determinato trattamento. La Corte ha altresì precisato che, nel caso della ricorrente, il rifiuto delle trasfusioni basato sulla sua appartenenza ai Testimoni di Geova non poteva essere equiparato a un rifiuto della vita, ma rappresentava piuttosto l’esercizio del diritto di autodeterminazione terapeutica. Tale principio implica che l’imposizione di un trattamento medico senza consenso, anche in situazioni di emergenza, costituisce una violazione del diritto al rispetto della vita privata. Pertanto, le scelte adottate nell’esercizio del diritto di autodeterminazione, ispirate da motivi religiosi, non può configurarsi come una condotta illecita in quanto la Convenzione, riconoscendo il diritto di libertà religiosa dell’individuo, esclude ogni margine di discrezionalità statale nella valutazione della legittimità delle credenze religiose o dei mezzi impiegati per esprimerle.
Con riguardo al processo decisionale che aveva condotto all’autorizzazione da parte del juez de guardia, la Corte ha messo in luce che la paziente aveva depositato le direttive anticipate di trattamento già nel 2017, quando i primi sintomi della sua malattia si erano manifestati, e che il suo successivo e reiterato rifiuto era stato debitamente registrato per iscritto presso l’ospedale di Soria a seguito del primo ricovero. Tali documenti potevano e dovevano essere consultati attraverso il semplice accesso al Registro Nazionale e al Registro della Comunità autonoma di Castiglia e León, così come il successivo rifiuto, registrato per iscritto, avrebbe dovuto essere trasmesso dall’ospedale di Soria all’ospedale La Paz. Conseguentemente, la Corte ha ritenuto che la decisione adottata dal juez de guardia si fosse erroneamente basata su informazioni incomplete ed inesatte e che, quindi, il sistema sanitario e giuridico spagnolo non era riuscito a rispettare il diritto della donna all’autodeterminazione personale. Pertanto, la Corte ha riconosciuto che vi era stata una violazione dell’articolo 8 della Convenzione, letto alla luce dell’articolo 9, poiché l’interferenza dello Stato nella vita privata della ricorrente, attraverso l’autorizzazione della trasfusione, non aveva rispettato adeguatamente la sua libertà religiosa e il suo diritto a decidere liberamente sui trattamenti sanitari.
La sentenza ha quindi evidenziato l’importanza del rispetto delle garanzie procedurali per evitare che l’intervento dello Stato risulti arbitrario e finisca con il violare diritti fondamentali. Tuttavia, nel caso Pindo Mulla v. Spain, la Corte ha scelto di basare la propria decisione principalmente sull’articolo 8 della Convenzione, utilizzando il concetto di “autonomia personale” e attribuendo alla libertà religiosa sancita dall’articolo 9 il semplice ruolo di elemento che “colora” il caso di una sfumatura religiosa, senza che ne rappresenti il fulcro centrale. Tale impostazione sembrerebbe rappresentare un’occasione mancata per affrontare in modo più approfondito il delicato equilibrio tra la libertà di religione e le modalità attraverso cui essa si esercita, in rapporto con gli altri diritti in gioco, specie in presenza di una questione che, nella sua essenza, verteva su una chiara violazione del diritto di libertà religiosa.
Brigitta Marieclaire Catalano
16 ottobre 2024
[1] Pretty v. the United Kingdom, European Court of Human Rights, 29 April 2002.
[2] Lambert and Others v. France, European Court of Human Rights, 5 June 2015.
[3] Taganrog LRO and Others v. Russia, European Court of Human rights, 7 June 2022.