Quaderno monografico n. 4Le intese: attualità e prospettive, prendendo spunto dalla recente Intesa con la Chiesa d’Inghilterra Indice
NEWSSTATI UNITI D’AMERICA Identità di genere, orientamento sessuale e appartenenza religiosa negli sport delle scuole americane. A proposito degli effetti della nuova Transgender Participation Policy della National Association of Intercollegiate Athletics nelle istituzioni educative cattoliche (Caterina Gagliardi)
A Strasburgo, l’11 aprile 2024, il negozio della Geox, nota azienda italiana d’abbigliamento e calzature, è balzato agli onori della cronaca per una questione legata al velo islamico.
Una ragazza di fede musulmana, dopo essere stata assunta come commessa attraverso un’agenzia di lavoro interinale, ai cui colloquî di selezione aveva peraltro partecipato a capo scoperto, s’era presentata al lavoro indossando l’hijab.
Il responsabile del negozio l’ha richiamata all’obbligo di neutralità, che la riforma del 2016 del diritto del lavoro ha espressamente previsto anche per il lavoro privato, e dunque le comunicava di non poterla assumere se avesse voluto continuare ad indossare il velo islamico.
La commessa, a propria volta, obiettava che il divieto d’indossare simboli religiosi non fosse contemplato nel contratto di lavoro propostole dall’agenzia interinale.
La fattispecie normativa qui applicabile è certamente il principio del divieto di discriminazione in materia d’occupazione e condizioni di lavoro, regolato dalla 2000/78/CE[1].
In quest’ambito erano già sorti contenziosi su cui erano state chiamate a pronunciarsi sia le Corti nazionali, e non solo in Francia[2], sia la Corte di Giustizia UE.
I primi casi decisi da quest’ultima al riguardo, infatti, sono le sentenze Achibita vs G4S Secure Solutions[3] e Bougnaoui vs Micropole SA[4], che però sono solo parzialmente sovrapponibili all’attuale caso di Strasburgo.
Nella prima sentenza, infatti, la receptionist di religione islamica era stata licenziata dall’azienda francese dopo aver iniziato ad indossare il velo sul luogo di lavoro, e la Corte aveva ritenuto valido il licenziamento per giustificati motivi.
Nel secondo caso, invece, la Corte di Giustizia ha ritenuto discriminatorio il licenziamento dell’ingegnere Mme Bougnaoui, che, pur indossando l’hijab quando non in contatto col pubblico, s’era rifiutata di togliersi il velo quando, come richiesto dalla ditta, avesse dovuto recarsi presso uffici di clienti della ditta; la Corte ha stabilito che la volontà di tener conto del desiderio d’un cliente di non dover interagire con una dipendente dell’azienda che indossa un velo islamico non può essere considerata come un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, ed il licenziamento è dunque discriminatorio.
In Francia, peraltro, la loi travail, o loi El Khomri (dal nome del Ministro del lavoro che la fece approvare), ossia la legge n. 2016-1088, dell’ 8 agosto 2016, ha introdotto, nel Code du travail, l’art. L1321-2-1, secondo il quale il regolamento interno d’un’azienda può prevedere anche disposizioni che tutelino il principio di neutralità, limitando la manifestazione delle convinzioni dei dipendenti, se queste limitazioni siano giustificate dall’esercizio d’altre libertà o dalla necessità di garantire il buon funzionamento dell’azienda, e sempreché esse siano proporzionate allo scopo ricercato.
La possibilità che il regolamento aziendale contenga il divieto d’indossare simboli religiosi è stata peraltro confermata anche dalla più recente giurisprudenza della Corte Europea di Giustizia, seppur sempre legata a reali esigenze d’equilibrio e necessità.
Nell’affaire WABE vs IX et MH Müller vs MJ [5], del 2021, infatti, rispondendo a due domande di pronuncia pregiudiziale sui casi di due musulmane residenti in Germania, l’una dipendente d’una farmacia, l’altra puericultrice, la Corte ha stabilito che il divieto d’indossare simboli religiosi sul luogo di lavoro non è discriminatorio se s’applica a tutte le religioni e permette d’evitare conflitti interni all’azienda, che deve, però, dimostrare che la lesione di tale divieto comprometta la sua libertà d’impresa.
Ancora, nella seconda sentenza, S.C.R.L. vs LF[6], del 2022, relativa ad un’azienda belga, poi, si presenta una situazione che s’avvicina a quella della vicenda Geox del 2024, giacché relativa ad una donna che non è stata assunta a seguito d’un colloquio di lavoro perché s’era rifiutata di togliersi il velo.
In questa sentenza la Corte del Lussemburgo afferma l’ammissibilità d’un regolamento interno che vieti d’indossare simboli visibili di convinzioni religiose, a condizione che riguardi tutte le espressioni di convinzioni non solo religiose, ma anche filosofiche e spirituali, e si applichi a tutti i dipendenti.
La costante presenza di conflitti di questo tipo, pur in un quadro generale europeo di crescente secolarizzazione ed in un contesto di sempre maggiore sviluppo economico, dimostra e conferma quanto da tempo previsto, ovvero quanto sia “Ancor meno accettabile, perché antistorica, l’opinione secondo la quale il progresso annullerebbe il pensiero religioso in quello laico”[7] .
Stefano Testa Bappenheim
[1] https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:32000L0078
[2] V. S. TESTA BAPPENHEIM, Auri sacra fames? Sì, ma non troppo: nota a BVerfG, 30 luglio 2003, in qdpe, 2005, pp. 811 ss.
[3] https://curia.europa.eu/juris/document/document.jsf?docid=188852&doclang=IT
[4] https://curia.europa.eu/juris/document/document.jsf?docid=188853&doclang=IT
[5] https://curia.europa.eu/juris/document/document.jsf?text=&docid=244180&pageIndex=0&doclang=it&mode=lst&dir=&occ=first&part=1&cid=4156939
[6] https://curia.europa.eu/juris/document/document.jsf?text=&docid=267126&pageIndex=0&doclang=it&mode=lst&dir=&occ=first&part=1&cid=4229844
[7] M. TEDESCHI, Secolarizzazione e libertà religiosa, in AA.VV., Studî in onore di G. Saraceni, Napoli, 1988, pag. 499.